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Crisi totale, soluzione possibile

31 maggio 2020 

Quanto più una crisi è profonda tanto più sviluppa reazioni, alcune degne di nota ma la maggior parte da non tenere in alcun conto. La pandemia che sta affliggendo l’umanità è una crisi profonda e le numerose reazioni che si sono manifestate sembrerebbero essere catalogabili per tipologie definite: lavoro, società, finanza, ecc. cioè tutti settori del vivere sociale che presentano un profilo specifico da crisi con l’eccezione della politica e della religione che rimangono incapaci di interpretare gli eventi e indirizzare le azioni.

 

I lavoratori e gli imprenditori temono per la stabilità delle loro occupazioni, i sociologi discettano sui deprecabili effetti del necessario confinamento domiciliare, gli economisti si distinguono per la miopia e l’aridità delle loro affermazioni. Il mondo moderno è banale perché tutte le manifestazioni vitali dell’essere umano sono state pervicacemente compresse entro ambiti ristrettissimi dove sviluppare attività ad alta resa emotiva e, contemporaneamente, estese a tutto l’arco esistenziale del quale è stata incrementata soltanto la parte finale, la vecchiaia, causando i tanti altri problemi ben noti.

 

A causa delle culture anglosassoni dominanti, la visione mediterranea e tradizionale è stata imprigionata e la politica e la religione hanno assunto il ruolo di carcerieri. E così il lavoro è diventato un mezzo per la cosiddetta realizzazione individuale, la società appare sempre più come un liquido che, come è noto, assume sempre la forma del recipiente che lo contiene, rinunciando alla conquista di una coesione ragionata. L’economia si preoccupa di perseguire il falso obiettivo della creazione (sic!) della ricchezza, ama indossare la maschera del grassatore e tramutarsi in finanza, quando le condizioni glielo consentono e quando le pulsioni peggiori -purtroppo perfettamente legali-, riescono ad emergere.

 

Insomma, più la vita materiale si semplifica e migliora tanto più cresce la complessità sociale unitamente alla paura della vita e della morte perché si vorrebbe dilatare quasi all’infinito il senso di appagamento materiale che deriva dalle tante attività che sembrano quasi progettate per riempire, anzi ingolfare l’esistenza quotidiana che sembra tesa al raggiungimento di quell’unico scopo che è la ricerca della felicità, discutibile e superficiale enunciato della dichiarazione d’indipendenza americana. In un articolo di qualche anno fa U. Eco, commentandolo, scriveva che “dovremmo abituarci a pensare a una vita piena in termini collettivi e non come soddisfazione solo individuale”. Sagge parole ma le tensioni sociali dimostrano che l’obiettivo, anche se noto, viene ampiamente e generalmente disatteso perché in contrasto con le altre e più impellenti necessità esclusivamente economiche del mondo produttivo. 

La soluzione non è l’eliminazione della tecnologia -il modello amish, ad esempio, non convince- ma si può cominciare con l’impostare un processo logico di soluzione eliminando la fede nella tecnologia e nel suo rapido sviluppo e soprattutto nella sua infinita possibilità di crescita. Non credere significa non perseguire quel fine, non enfatizzarlo ma usare la tecnologia ben sapendo che si tratta di uno strumento imperfetto e limitato che risolve un problema ma ne crea molti altri. Fin qui nulla di nuovo: l’argomento è stato ampiamente dibattuto senza giungere mai ad alcuna conclusione, con l’unico risultato di aumentare la distanza delle posizioni degli interlocutori.

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Ivan Mosca, Olio su tela  - 1954

Il problema esistenziale non ha soluzione ma potrebbe avere un insieme di soluzioni da implementare gradualmente e collettivamente, a vari livelli con diversi gradi di adesione. L’attività intellettuale non si innalza quasi mai al di sopra di una orizzontalità ristretta e le soluzioni vengono cercate nell’ambito di quella stessa dimensione. Eppure la storia delle idee avrebbe dovuto insegnare che un sistema di pensiero non è in grado di risolvere se stesso nel senso che non ha alcuna possibilità di uscire al di fuori dei propri limiti utilizzando i propri mezzi. Tanto più un insieme complesso di sistemi.

 

Se per tradizione si intende la capacità di utilizzare armoniosamente e contemporaneamente tutte le facoltà dell’essere umano, allora si può dire che il mondo tradizionale ha adottato soluzioni che hanno permesso la produzione di un pensiero inalienabile che ancora oggi rimane insuperato tanto che ha prodotto una serie infinita di commenti, soltanto commenti, di un nucleo di conoscenza che rimane fisso e inviolabile. Il mondo tradizionale aveva una perfetta consapevolezza dell’incapacità dell’intelletto di organizzare tutti gli aspetti dell’esistenza e ha tentato, con risultati a volte esemplari, di unire fisico e metafisico, costituendo un “ambiente” solido in grado di essere scudo e riferimento.

 

Gli slanci verso l’infinito, le angosce esistenziali, i bisogni metafisici alimentati o incrinati delle consapevolezze terrene, l’ansia di liberazione spirituale, il desiderio di interiorità come “rifugio” delle temperie della vita moderna, la dolorosa consapevolezza della presenza del male e il conforto nel capire che è possibile contrastarlo, sono segni eloquenti di un intimo colloquio dell’anima con se stessa che esprime un profondo disagio che l’ambiente di cui sopra potrebbe indirizzare e risolvere se ben impostato e ben guidato.

Un articolo di Paolo Mascetti per Shavuot 

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